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Indipendence on my Skin - Erik Messori

96 pages, 30×40 cm, hardcover, Italian/English

70,00
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Tutto ha inizio da una birra nel pub sbagliato, all’interno del quale non entrava nessuno che non fosse conosciuto e “di famiglia”. Così, Erik Messori stabilisce il primo contatto con gli irredentisti irlandesi, alcuni ancora in clandestinità, e riesce a ottenere la loro fiducia al punto da poterli ritrarre. Ne esce una galleria di ritratti senza volto e di paesaggi senza figure umane, che racconta però l’essenza di una battaglia accantonata, ma non morta. La forza, e anche la violenza, di una lotta animata da aspirazioni tuttora insoddisfatte. Una vicenda storica apparentemente archiviata, ma ancora presente.

Independence on my Skin, l’indipendenza sulla mia pelle, di Erik Messori ci mostra i tatuaggi sul corpo degli irredentisti irlandesi e i loro graffiti e murales sulle case di Belfast, fissando per sempre un discorso per sua natura destinato a scomparire: i tatuaggi, insieme a chi li indossa – e in questo caso non li esibisce nemmeno – e le pareti degli edifici, con le inevitabili modificazioni urbane. Questo libro richiama alla memoria pagine di una storia archiviata e ne illumina altre, attuali, ancora da scrivere. Muri con il filo spinato che come cicatrici attraversano le città o che disegnano confini, promettendo protezione dall’altro, dal diverso, dal nemico, continuano a esistere e a essere progettati. Persino sul mare, se fosse possibile. Così come non cessano di presentarsi vecchie e nuove rivendicazioni di indipendenza e riconoscimenti di specifiche identità.

Potrebbe sorgere il dubbio che queste fotografie siano arrivate fuori tempo massimo, oltre la moda dell’avvenimento, oltre la sua attualità. Al contrario: non avrebbe potuto essere diversamente, perché un progetto come questo non sarebbe stato realizzabile in medias res. Occorreva che si calmassero le acque, che la tempesta fosse alle spalle, che la furia e l’eccesso della tragedia cedessero il passo alla malinconia e alla meditazione dell’elegia. Infatti, le fotografie di questi tatuaggi, scattate tra il 2013 e il 2018, sono il compianto per una condizione infelice. La pace, a seguito della tregua, non ha certo fornito risposte esaustive alle ragioni di un conflitto così indefinito e anomalo, oltre che protratto nel tempo, da essere chiamato Troubles, disordini, alla fine del quale, con le parole del leader unionista David Trimble, Nobel per la pace nel 1998, l’Irlanda del Nord resta “una casa fredda per i cattolici”.

Paesaggi urbani senza figure umane e corpi senza volto: in queste fotografie di Erik Messori a parlare non sono gli uomini e le donne ritratti o i muri e le strade irlandesi, ma le parole stesse e i disegni dei tatuaggi e dei murales. Il discorso, alla maniera di Michel Foucault, genera gli oggetti di cui parla. Armi e bandiere, insegne ed emblemi, parole e nomi scritti in gaelico, mappe dell’Irlanda e visi di famigliari e amici perduti, di personaggi storici o iconici costruiscono, ciascuno per proprio conto, una storia emozionale, al di là della cronaca, resa ancora più potente dalla distanza straniante imposta dal bianco e nero.

Questi scatti ruvidi, spesso realizzati in poco tempo, con una costruzione della posa o dell’ambientazione improvvisate, non concedono distanza a chi li guarda. Impongono una presenza ravvicinata, urtante: siamo chiamati a farci coinvolgere, senza filtri o vie d’uscita. Siamo con le spalle al muro, non possiamo distrarre lo sguardo. Frughiamo allora in queste storie scritte per emblemi, disegni, singole parole o brevi frasi, promesse d’amore e date di morte. Impossibile, ancorché inutile, ricostruire anche una sola di queste storie personali, mentre emergono, fotografia dopo fotografia, in una dimensione collettiva, il loro significato, la loro forza, la trama che ha unito per alcuni decenni queste persone nella lotta dell’Irlanda del Nord per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Accanto all’ostentazione delle armi e all’esibizione della fede nella violenza, compaiono i folletti e le croci celtiche, il trifoglio del missionario San Patrizio, simbolo della Trinità divina, l’arpa dei monaci benedettini, emblema dell’Irlanda che si oppose all’invasione inglese nel XIII secolo. Ci sono i richiami ad altre battaglie affini, come quelle della Scozia o dei nativi americani, a icone rivoluzionarie come Che Guevara; si riconosce il volto di Bobby Sands che portò alle estreme conseguenze lo sciopero della fame, lasciandosi morire in carcere nel 1981. Ci sono sentenze religiose (Soltanto Dio mi può giudicare) o di battaglia (Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio). Ci sono, poi, le date di morte dei compagni o dei mariti o dei figli morti nella lotta per l’indipendenza, fino al caso estremo della fotografia di copertina, in cui la schiena dell’uomo ritratto è un mausoleo per i caduti nella lotta.

Non è un caso che la manifestazione di queste aspirazioni, della rabbia e del dolore che ne ha segnato la delusione, sia espressa attraverso i tatuaggi. Infatti, gli anni in cui i Troubles segnano un’impennata verso la lotta armata, cioè a partire dalla fine degli anni Sessanta, sono quelli della controcultura degli hippies e dei bikers prima, dei punk e degli skinheads poi, all’interno della quale proprio il tatuaggio assume una valenza politica, oltre a quella ancestrale identitaria, legata al senso di appartenenza a un gruppo e a quello del riconoscimento dell’individuo come membro di una comunità. Di più, i tatuaggi degli irredentisti irlandesi, celati più che esibiti, fanno pensare a quelli dei protocristiani, intenti a legittimare l’appartenenza a un culto e a una fede vissuti in clandestinità.

E, forse, l’intuizione di Erik Messori di dar voce all’irredentismo irlandese attraverso i tatuaggi appare ancora più felice e puntuale, se pensiamo che proprio al corpo fu affidata, nei blocchi H del carcere di Long Kesh, la protesta dei combattenti catturati, a cui dal 1976 venne negata la condizione di prigioniero politico. Prima con la blanket protest per cui i prigionieri si rifiutavano di indossare la divisa da carcerati, uscendo dalle celle nudi e avvolti nei lenzuoli in cui dormivano; poi con la dirty protest, per cui i prigionieri imbrattavano le pareti delle celle con i propri escrementi per denunciare le condizioni inique del loro trattamento; infine, con lo sciopero della fame del 1981, organizzato a turni per protrarne la durata, che, a fronte dell’inamovibilità di Margaret Thatcher, condusse alla morte dieci prigionieri, tra cui il più celebre Bobby Sands.

I muri di Belfast e di Derry e i corpi di queste persone sono dunque testimonianze dirette, ciascuna diversa dalle altre, nessuna isolata, di un’aspirazione libertaria che ha condotto a una lotta feroce. Erik Messori con la tenacia della passione e il coraggio dell’idealista che è, ha forzato la diffidenza dei reduci di una guerra persa, che continuano nondimeno a coltivare le proprie idee indipendentiste pur avendo deposto le armi. Il risultato è un documento prezioso per la forza dell’immediatezza con cui ci parla: una struggente melodia di cui non cogliamo forse tutte le parole, ma avvertiamo i sentimenti che la animano. Queste fotografie, nel dettaglio, non ci raccontano nulla di preciso, ma nell’insieme ci dicono tutto quello che dobbiamo sapere a proposito di persone ritratte, la cui essenza coincide con una lotta mai conclusa, con aspirazioni frustrate, con quanto hanno inciso con inchiostro sulla propria pelle. Proprio per questo non è fondamentale che la maggior parte di loro abbia scelto di rimanere nell’anonimato — e non solo per questioni di clandestinità.

Questi tatuaggi e questi murales sono voci di prima mano che, a torto o a ragione, con rabbia o con dolore, ci riportano alla domanda della canzone degli U2: How long, how long must we sing this song?, Per quanto, per quanto tempo ancora dovremo cantare questa canzone?

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