Da una ricerca svolta, su incarico dell'Università Sapienza di Roma, presso le carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile, in tema di "tatuaggi sulla persona detenuta", è emerso come la modalità di comunicazione non verbale della popolazione detenuta nel corso degli anni ha subito una profonda trasformazione. In passato, tatuarsi in carcere ostentava l'essere stato in "galera", rappresentava motivo di orgoglio, ovvero, intimava rispetto nel gergo carcerario ed incuteva timore nelle persone della società libera. Oggi, la "cultura detentiva" si è dovuta conformare al progresso tecnologico che risente dei tatuaggi come segno di riconoscimento per gli investigatori. Infatti, la criminalità organizzata nell'accurata selezione dei propri adepti predilige persone incensurate, che non attirino l'attenzione delle forze dell'ordine per portare a termine malaffari. Il tatuaggio oggi sembra avere le stesse motivazioni che aveva nelle popolazioni primitive: viene fatto per motivi estetici ma anche per comunicare, esprimere l'appartenenza ad un gruppo ed esorcizza le paure. Per una minoranza di delinquenti per tendenza la scelta di tatuarsi è più profonda, l'inchiostro che attraverso la propria pelle entra nel copro è indicatore di malessere, sofferenza o comunque, rimorso verso una particolare scelta di vita costretta anche da vizi ma principalmente dal contesto sociale.
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